Dentro la riserva dello Stagnone di Marsala (provincia di Trapani), si trova una delle isole più conosciute del mondo. Grande circa 45 ettari, ha una forma quasi circolare e si trova tra la cosiddetta Isola Grande e la terraferma. È l’isola di San Pantaleo, famosa però col come di Mozia.
Mozia era una colonia fenicia, fondata nell’VIII secolo a.C. da coloni provenienti da Tiro, nell’attuale Libano, che nel Mar Mediterraneo avevano fondato Cartagine. L’antico nome fenicio della città era Mtw o Hmtw, quello grecoΜοτύη (Motye), come riportato da Tucidide e da Diodoro Siculo.
Mozia era una delle tre città fenice più importanti della Sicilia (insieme a Palermo e Solanto). I fenicio-punici (coloni provenienti da Cartagine) infatti, si erano ritirati nell’area nord-occidentale dell’isola, quando cominciò la colonizzazione greca della Sicilia.
La convivenza tra cartaginesi e greci era poco pacifica: alla fine del V secolo a.C. Cartagine, alleandosi con gli Elimi, aveva distrutto diverse città greche, come Selinunte, Himera e Agrigento. All’inizio del IV secolo a.C. Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa, iniziò una campagna di conquista delle città elime e puniche. Così, nel 397 a.C., dopo un lungo assedio, i siracusani assediarono, conquistarono e distrussero Mozia.
Tuttavia, dopo 1 anno i cartaginesi cacciarono i siracusani e riconquistarono Mozia, dove effettuarono una grande operazione di spianatura dei terreni coprendo le macerie dell’assedio. Sopra due strati di terra battuta, i cartaginesi ricostruirono alcuni edifici. Nel frattempo però, i superstiti si erano trasferiti sulla terraferma, fondando l’antica Lilibeo: l’attuale Marsala.
Questa nuova città fece perdere importanza all’insediamento sulla piccola isola, che fu sempre meno popolata. Da quando la Sicilia divenne provincia romana, alla fine della Prima Guerra Punica (241 a.C.), a Mozia si trovavano solo piccole ville, di età ellenistica e romana.
Abbiamo poche notizie sulla situazione di Mozia nel periodo dell’alto medioevo. Dopo la cacciata degli Arabi, con la conquista normanna della Sicilia (1061-1091), molti ordini religiosi ebbero in dono diversi luoghi. Per questo, nell’XI secolo, i monaci basiliani dell’abbazia di Santa Maria della Grotta di Marsala cominciarono a gestire Mozia. E a loro si deve il nome dell’isola: San Pantaleo era il santo fondatore dell’ordine.
Dopo un periodo di gestione dei monaci monaci gesuiti, nel 1792 Mozia divenne feudo del notaio Rosario Alagna, barone di Mothia. Sotto la sua tutela iniziarono i primi “scavi archeologici”, poiché già Settecento circolavano voci di ritrovamenti archeologici sull’isola. Tanto che l’identificazione dell’isola con la fenicia Mozia risale al XVII secolo, ad opera dello storico tedesco Philipp Clüver.
Alla fine del 1800, persino Henrich Schliemann, il famoso scopritore di Micene e Troia, effettuò degli scavi a Mozia. Però egli stette solo una settimana, non trovò nulla e se ne andò, definendo infruttuosa la sua esperienza.
Qualche decennio dopo, fu un altro uomo a capire le vere potenzialità di questo sito archeologico: Giuseppe Whitaker. L’abile imprenditore, proprietario di una delle più importanti cantine di marsala, che fu anche un fine ornitogolo ma soprattutto un entusiasta archeologo. Infatti acquistò l’intera isola di San Pantaleo dai contadini che la possedevano.
Fu Giuseppe Whitaker a dirigere la prima serie di scavi sistematici, dal 1906 al 1927, ritrovando la maggior parte dei monumenti della città antica. Infine, inaugurò il museo permanente che ancora esiste sull’isola. Nel museo sono tutt’oggi custoditi, studiati ed esposti i tanti reperti ritrovati a Mozia e in altri siti nell’area dello Stagnone di Marsala.
Tra i tanti reperti, spicca la bellissima statua marmorea, di chiara matrice greca, delGiovinetto di Mozia. La scultura è stata ritrovata, il 26 ottobre 1979 dagli operai diretti dal Prof. Gioacchino Falsone, nell’area del Santuario del Cappiddazzu, una delle zone più interessanti dell’isola.
Presso l’area del Santuario, gli archeologi hanno riportato alla luce un grande impianto produttivo, del quale faceva parte la più grande fornace fenicia ritrovata nel Mediterraneo. Profonda 4 metri, la fornace aveva un piccolo corridoio d’ingresso e un soffitto a cupola (crollato). Questo grande forno serviva per cuocere tantissimi oggetti in terracotta: statuette, piatti, vasi, come quelli che troviamo esposti nel museo.
Dell’area produttiva facevano parte anche un impianto per la lavorazione dei metalli e una per la tintura delle pelli. Tutta l’area del Santuario del Cappiddazzu fu sepolta probabilmente dagli stessi moziesi, durante o subito dopo l’assesio siracusano del 397 a.C.
Dagli anni ’60 gli scavi archeologici furono condotti dall’Università La Sapienza di Roma, diretti prima dalla Prof.ssa Antonia Ciasca, poi dal Prof. Lorenzo Nigro. Agli scavi collaborò la Soprintendenza alle Antichità della Sicilia occidentale (allora diretta dal Prof. Vincenzo Tusa). In quegli anni si scavò nella già citata area del Santuario del Cappiddazzu, in quella del tophet e nel centro abitato.
Dagli anni ’70 fu invece l’Università degli Studi di Palermo, con il Prof. Gioacchino Falsone e la Prof.ssa Antonella Spanò Giammellaro, a svolgere gli scavi archeologici, alcuni dei quali ancora in corso. Le aree analizzate furono soprattutto la necropoli arcaica, la cosiddetta Casa dei Mosaici, l’area del tofet, del cothon, le zone di Porta Nord e di Porta Sud e della cosiddetta Casermetta.
Al 2005 risalgono le prime indagini di archeologia subacquea, che hanno riportato alla luce delle banchine e una strada sommersa. Le indagini, dirette dal compianto Prof. Sebastiano Tusa (allora Direttore della Soprintendenza del Mare) hanno studiato una strada sommersa larga circa 7 metri e lunga più di 1 km. La strada collegava l’isola alla terraferma: dalla Porta Nord al promontorio di Birgi, dove, dal VI secolo a.C., era installato un ampliamento una necropoli. Le lastre di pietra irregolari e i muretti, che caratterizzano la strada, s’intravedono sotto il pelo dell’acqua, grazie all’innalzamento del livello del mare.
Al centro della Riserva naturale dello Stagnone di Marsala, l’isola di Mozia è un’area protetta che tutela anche la biodiversità di un ecosistema prezioso. Una flora tipica della macchia mediterranea, insieme a piante esotiche introdotte dai Whitaker, e una fauna composta specialmente da uccelli migratori e specie acquatiche anche protette (come l’Aphanius fasciatus). Completano il paesaggio i vigneti di uva Grillo, coltivata ad alberello.
Circondata da mura possenti, con le antiche case, le aree industriali e quelle sacre, l’antica Mozia sembra ancora vivere. La ricerca archeologica continua: la Missione Archeologica dell’Università degli Studi di Palermo oggi è diretta dalla Prof.ssa Paola Sconzo e dal Prof. Aurelio Burgio. La Missione lavora in collaborazione con la Soprintendenza BB.CC.AA. di Trapani.
Ovviamente, gli scavi archeologici hanno il patrocinio dell’ente proprietario dell’isola, che offre le strutture necessarie agli archeologi. L’isola di San Pantaleo è ancora oggi infatti, di proprietà della Fondazione Giuseppe Whitaker, che fa di Mozia l’area archeologica privata più famosa del mondo.
Fotogorafie di Antonietta Patti