L’enogastronomia siciliana rappresenta un patrimonio straordinario, ricco di storicità e intriso di sacralità. È uno dei filoni aurei più preziosi dell’identità culturale e turistica dell’isola. Tuttavia, proprio questo suo valore rischia oggi di essere compromesso da un fenomeno preoccupante: la banalizzazione.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’esplosione di sagre, eventi, feste e appuntamenti conviviali che, se da un lato testimoniano un rinnovato interesse e una crescente vitalità economica legata al settore, dall’altro rivelano un entusiasmo spesso privo di profondità culturale. Si celebra il cibo ovunque, in ogni contesto, talvolta senza alcuna reale connessione con la tradizione o la specificità territoriale.
Street food, cene tematiche, festival enogastronomici, percorsi food & wine: la gastronomia è ormai diventata la formula magica per garantire il successo di qualsiasi evento. Basta evocare il cibo per assicurarsi visibilità, fondi e partecipazione. La parola “gastronomia” è la chiave che apre le casse di enti pubblici e privati: Assessorati, GAL, Comuni. Tutto diventa possibile, tutto diventa “gustoso”, anche a costo di perdere autenticità.
Il rischio più grave è che questo entusiasmo alimenti una conoscenza superficiale. Tutti parlano di vino, olio, ricette tradizionali, spesso senza alcuna reale competenza. Bastano due articoli letti su un blog o qualche video di un influencer improvvisato, e ci si improvvisa esperti. Parafrasando il celebre film, si potrebbe dire: “Tutti pazzi non per Mary, ma per l’enogastronomia”.
Questa omologazione dilagante tende a ignorare le radici profonde dei prodotti tipici, privandoli del loro contesto culturale, sociale e ambientale. Viene dimenticato il sincronismo, ovvero il legame tra un prodotto e il suo tempo, e l’anacronismo, ossia l’inadeguatezza di certi usi fuori dal loro contesto originario. Si rischia così di ridurre il cibo a folklore, a intrattenimento, perdendo di vista la sua funzione identitaria.
Ernesto De Martino parlava di “patrie alimentari” come spazi in cui uomo, territorio e produzione si incontrano e si rinsaldano. Oggi, quei legami si stanno indebolendo. Già Vito Teti denunciava anni fa la “sagra-invenzione”, cioè l’invenzione forzata di tradizioni alimentari a fini turistici o economici. Ma oggi, probabilmente, siamo andati oltre: assistiamo a una vera e propria “banalizzazione enogastronomica”.
Questa banalizzazione mette in pericolo la trasmissione stessa della cultura alimentare. Le memorie storiche dei prodotti, le trasformazioni climatiche, la semplificazione delle tecniche di preparazione, la perdita di saperi locali: tutto ciò segnala una crisi culturale profonda. Si sovrappongono interessi estemporanei a ciò che dovrebbe invece essere rispettato, tutelato e tramandato.
Se non si inverte questa rotta, le nuove generazioni rischiano di non ricevere alcun lascito significativo. La cultura gastronomica rischia di essere travolta non solo dall’oblio, ma da una vera e propria “anticultura”, portata avanti da fanatici dell’effimero, ciechi davanti al valore autentico del cibo come espressione di storia, identità e territorio.