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Condizioni e aspirazioni della società siciliana del Seicento

di Esther Di Gristina
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Il Seicento è stato definito dall’insigne studioso Vincenzo Di Giovanni come “Il Secolo niente felice”. Il XVII secolo fu davvero non felice per la Sicilia per un duplice motivo.

Per gli avvenimenti catastrofici e le gravi e dolorose condizioni di vita che l’isola mediterranea dovette patire. Ma anche perché non è stato mai adeguatamente apprezzato lo sforzo culturale che la Sicilia effettivamente compì in quel periodo, in vari campi delle attività umane. Il lavoro degli scienziati siciliani del tempo, quali Boccone, Cupani ed altri illustri personaggi, favorì fattivamente il progresso civile dell’Europa.

Le principali vicissitudini storiche della Sicilia del XVII secolo sono anche state caratterizzate, in particolare, da eventi dinastici. Morto Filippo II di Spagna, nel 1598 gli successe il figlio, Filippo III (1598 -1621) assolutamente inadatto a reggere domini così vasti e difformi.

Numerose erano le difficoltà in Sicilia. Le inefficienze della pubblica amministrazione, sempre più corrotta. I rigori del Sant’Uffizio, che si manifestò sempre più come un organo di oppressione politica e non soltanto spirituale. Le numerose calamità: epidemie, carestie, l’eruzione dell’Etna del 1669 e lo spaventoso terremoto dell’11 gennaio 1693 (che devastò buona parte dell’isola sud-orientale provocando 60.000 morti, di cui solo a Catania 18.000 su 27.000 abitanti). I dannosi campanilismi tra una città e l’altra e un indomabile brigantaggio furono i mali peggiori che afflissero la Sicilia del Seicento.

Fra i viceré che Filippo III, mandò in Sicilia si distinse Don Pedro Giron, duca D’Ossuna che nel 1611 succedette al Marchese di Vigliena (dal quale prese nome la piazza che i palermitani chiamano solitamente “Quattro Canti”). Si diceva che il D’Ossuna andasse spesso in giro con i più imprevedibili travestimenti, per rendersi conto dei veri bisogni del popolo. Egli era un uomo poco tollerante verso i privilegi locali, che tagliavano la strada al buon governo. D’Ossuna s’impegnò molto più a fondo dei suoi predecessori nel manipolare, secondo l’uso tradizionale, il Parlamento di Sicilia.

Colto, cinico e privo di scrupoli, questo grande uomo di Spagna fu sconvolto dagli effetti dell’inerzia governativa. L’assassinio era cosa comune in tutta l’isola: perché ci si poteva procurare dei sicari a buon mercato e i loro mandanti aristocratici non avevano difficoltà a proteggerli dalla legge. Tutti possedevano armi e la corruzione del Governo era accettata come pratica normale.

La politica di D’Ossuna consistette nell’intraprendere una serie di lucrose guerre contro gli Stati Barbareschi che affliggevano le coste. Il Mar Mediterraneo centrale vide nel Seicento una serie di continue e vittoriose affermazioni della flotta siciliana. Anche i problemi della giustizia e quelli finanziari, così come nel campo artistico e letterario ebbero una svolta positiva.

La carica di D’Ossuna ebbe però vita breve. Fu invitato un “Visitator” dalla Spagna, e D’Ossuna fu criticato per abuso di potere. Dopo essere stato nominato viceré di Napoli, D’Ossuna lasciò la Sicilia nel luglio del 1616.

Le tristi condizioni generali dell’isola nel Seicento determinarono sanguinose sommosse. Frequentemente le rivolte travagliarono la Sicilia. Fra esse, i moti palermitani guidati da D’Alessi nel 1647, che ebbero carattere rivoluzionario e addirittura internazionale. Lo stesso, anche per le sue ripercussioni, si può dire della rivoluzione della città di Messina del 1674-1678.

Il campanilismo tra Catania e Palermo resta di poco conto se viene posto a raffronto con il campanilismo che dilaniò Palermo e Messina e che ebbe le sue esplosioni più gravi proprio nel XVII secolo. Nel 1629, Messina arrivò addirittura a proporre alla corona di Spagna lo smembramento della Sicilia in due Viceregni: quello orientale con capitale Messina, e quello occidentale con capitale Palermo. Per ottenere ciò, la città offri la favolosa cifra di un milione di scudi.

Da tutto ciò si può rilevare che nel Seicento non vi fu certamente la volontà di uno stato nazionale unitario, ma una semplice costante aspirazione sicilianista popolare a un’autonomia locale. Quest’ultima, in una certa fase storica, fu sostenuta dai nobili, per la difesa dei propri privilegi. Nei fatti, il persistere di un baronaggio prepotente, orientato a particolarismi feudali, impedì le tradizioni culturali e la volontà popolare del sogno della nazione di Sicilia.

Con la Pace di Utrecht del 1713, stipulata in Olanda tra le grandi potenze europee, la Sicilia venne confiscata al Borbone Filippo V e consegnata al suocero Vittorio Amedeo Duca di Savoia. I lunghi anni del dominio spagnolo erano improvvisamente finiti. Ma già nel 1721 I Savoia preferirono la vicina Sardegna, e così la Sicilia passò al dominio di Carlo VI d’Austria, Imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo III come Re di Sicilia.

Veduta del teatro antico di Taormina, Jean-Claude Richard de Saint-Non, Voyage pittoresque ou description des royaumes de Naples et de Sicile Vol. 4,

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